La storia del modello popolare dell'orgoglio alfista - prodotto tra il 1972 e il 1984 - si lega a doppio filo alle vicende dello stabilimento di Pomigliano d'Arco, la più grande fabbrica di automobili del Mezzogiorno. L'ambiziosa sfida di portare una prestigiosa fabbrica di automobili del nord al sud e di creare un modello che recasse il nome di questo audace quando complicato progetto si deve a Giuseppe Luraghi, Presidente di Alfa Romeo, il quale - anche a distanza di molti anni dalla sua esperienza con la casa del Biscione - non esita a rispondere "la Giulietta e il progetto Alfasud di Pomigliano d'Arco" a tutti quelli che gli chiedono a quali eventi della sua presidenza fosse più legato.
Dietro alla storia di questa macchina, orgoglio napoletano che ha segnato un'intera generazione di automobilisti, frutto di una delle più grandi scommesse industriali mai azzardate in Italia, si celano le tensioni operaie e le rivendicazioni sindacali degli anni Settanta come anche lo scontro tra l'industria pubblica (Alfa Romeo) e la FIAT: un mix politico-sociale-industriale servito sul palcoscenico del tentativo di industrializzare il Mezzogiorno d'Italia.
Alfa Romeo sbarca al sud
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono l'epoca d'oro dell'automobile, simbolo come mai prima (e nemmeno dopo di allora) di libertà, benessere e progresso. A fare la voce grossa sul mercato nostrano è la FIAT grazie agli iconici modelli 600 e 500 ma l'Alfa non rimane a guardare e risponde ai cugini torinesi iniziando anche lei la produzione di macchine "per il popolo", come le mitiche Giulietta e Giulia.
Già la prima delle "giulie" permette all'azienda milanese di compiere un salto, passando dall'essere un'azienda di grande prestigio ma di piccoli volumi produttivi a una vera industria moderna, abbandonando le grandi cilindrate in favore di equipaggiamenti più compatti. Sono ormai lontani i tempi delle imprese dei vari Nuvolari, Ferrari e Fangio al volante delle auto del Biscione, un'epoca in cui il leggendario Henry Ford era solito "togliersi il cappello" al transito di un'Alfa. Le sue auto non sono più "sportive inarrivabili" ma, ancora all'inizio degli anni Sessanta, per comprare una Giulia bisognava investire comunque 2 milioni di lire, troppe per un operaio il cui stipendio mensile non arriva a 80.000 lire. Per intaccare il dominio della FIAT, che pure appare inossidabile, a Luraghi viene l'idea di produrre una vera e propria utilitaria Alfa Romeo. La prima realizzazione, che però rimarrà solo sulla carta, è un prototipo che verrà ribattezzato "pidocchio"; sarà solo l'anteprima del progetto "gamma medio-piccole" di Casa Alfa la cui punta di diamante è l'Alfasud, automobile che verrà prodotta nello stabilimento campano di Pomigliano d'Arco (oggi Pomigliano d'Arco produce la nuova Alfa Romeo Tonale).
Inaugurato dall'imprenditore Nicola Romeo lo stabilimento è rimasto a lungo un'officina che si occupava perlopiù della costruzione di componentistica aeronautica. Rasa al suolo dagli alleati durante la Seconda guerra Mondiale tornò a nuova vita negli anni Cinquanta ma, negli anni Sessanta, sopravvive solo grazie alle commesse pubbliche, producendo motori diesel e autobus a due piani. Rilanciare le vendite di Alfa e contribuire all'industrializzazione del meridione in un colpo solo, questo è l'ambizioso piano di Luraghi, piano che dovrà confrontarsi con la dura realtà.
La fine del boom economico
La fine degli anni Sessanta significa anche la fine del boom economico e in Italia cominciano a fioccare le proteste: aprono le danze gli studenti nel Sessantotto, seguono gli operai metalmeccanici l'anno successivo.
"Ha senso costruire una nuova fabbrica di auto quando il mondo sta smantellando la sua industria?", gridano i più scettici, ma il dado ormai è tratto e il progetto milionario finanziato con i fondi della Cassa per il Mezzogiorno e voluto dallo Stato italiano al fine di favorire l'occupazione nelle regioni del Sud Italia, guidato dall'ingegnere austriaco Rudolph Hruska, vede Aldo Moro posare la prima pietra. Lo stabilimento Alfasud aprirà i battenti ufficialmente il 30 ottobre 1971 con una cerimonia in grande stile. Nel Mezzogiorno nasce così un'auto diversa da tutte le altre, un veicolo capace di segnare, nel bene e nel male, un'epoca. L'auto presenta una linea moderna firmata da Giorgetto Giugiaro di soli quattro metri, un'ottima tenuta di strada ed è molto veloce per la sua categoria grazie al suo motore boxer da 63 cavalli che le consente di raggiungere una velocità massima di 152 km/h. L'obiettivo della casa milanese è però non solo quello di creare un'auto economica nella produzione ma che fosse allo stesso modo economica e veloce nella manutenzione, come dimostra l'intelligente e ponderata disposizione di ogni elemento del suo motore a cilindri contrapposti: tutto era letteralmente a portata di mano.
Ma la novità tecnica più dirompente riguarda la trazione, anteriore, uno shock per Alfa Romeo fino a quel momento legata alla trazione posteriore, una soluzione che fece storcere il naso agli alfisti più tradizionalisti. L'auto aveva quindi bisogno - trattandosi di una vettura strutturalmente molto differente dalle precedenti - per assicurare quelle sensazioni alla guida "tipicamente alfa" di un grosso lavoro di messa a punto telaistico delle sospensioni; lavoro che il team dell'ing. Hruscka riuscì a portare a termine con successo.
L'Alfasud si presentava come un'auto dal cuore sportivo ma al contempo familiare, come dimostrano i cinque posti e l'ampio bagagliaio da oltre 400 litri: un veicolo costruito per soddisfare le esigenze dell'italiano medio. L'auto tra i vari test di collaudo ne sopporta anche uno davvero probante, un avventuroso viaggio da Milano a Calcutta, sulle piste del deserto, quasi a voler ulteriormente sottolineare la peculiarità di questo veicolo.
Nuvole all'orizzonte
Le note liete lasciano però progressivamente spazio anche a una serie di problematiche. Uscite dalla fabbrica, sulle auto non tardano infatti a emergere i primi difetti, su tutti quello che più di ogni altro rappresenta il terrore dei costruttori di automobili, la ruggine, un problema reale, anche se in alcuni casi strumentalizzato dall'opinione pubblica e che causerà non pochi problemi d'immagine al marchio anche negli anni a seguire.
Ma quello della ruggine non è il peggiore dei mali perché nel frattempo a Pomigliano la produzione procede a rilento a causa dei continui scioperi che rallentano la catena di montaggio. La fabbrica non raggiungerà mai difatti l'obiettivo di produzione prefissato di mille esemplari al giorno attestandosi, ben lontana da quella cifra, intorno alla metà. Creare un impianto così rigido in un momento storico in cui le agitazioni sociali erano notevoli si dimostrò complicato, ancor di più per un centro come Pomigliano, uno dei pochi poli industriali meridionali e per questo preso d'assalto da chiunque intendesse "far politica", come dimostra la galassia di gruppi neomarxisti appostati fuori dai cancelli, alacremente impegnati a fare opera di propaganda e volantinaggio. "Si faceva una contrattazione su tutto" - ricordano gli operai della fabbrica. A tutto ciò si aggiunse un problema probabilmente inaspettato, legato alla vocazione agricola della zona, quello delle patate. A Pomigliano si producono le migliori patate del mezzogiorno e quando è tempo di raccolta molti operai scompaiono dalla fabbrica per espletare i lavori agricoli: questo gruppo tutt'altro che sparuto di lavoratori sospeso tra primario e secondario è stato definito dei "metal-mezzadri".
Alle proteste e agli alti tassi d'assenteismo va aggiunta anche l'onda lunga del terrorismo, quando il 27 giugno 1977 il capo del personale dell'Alfa Vittorio Flick viene raggiunto alle gambe da diversi colpi di pistola. Flick si riprenderà e l'episodio, a differenza della scia di sangue che lungamente scorrerà fuori dalle fabbriche del settentrione, rimarrà fortunatamente isolato. C'è poi il contesto internazionale, con gli anni Settanta che si dimostrano uno dei momenti più difficili per il mercato automobilistico, i conflitti in Medioriente hanno infatti contribuito a far schizzare alle stelle i prezzi del petrolio e non solo.
Nonostante il numero di oltre un milione di Alfa vendute, l'Alfasud diventa per molti l'ennesimo simbolo di un sud che non funziona. Lo stesso nome dell'auto si trasforma in un boomerang, da simbolo della rinascita del meridione a un limite per il modello della casa milanese che, quando non va bene è "perché costruito al sud", come recitano i maligni.
Alfa Romeo contesa tra Ford e Fiat
L'Alfa Romeo, per la quasi totalità della propria storia sommersa dai debiti, non riesce a raddrizzare la rotta nemmeno con l'azzardo di Alfasud. La Casa del Biscione cerca allora di salvare lo stabilimento di Pomigliano raggiungendo un'intesa con i giapponesi di Nissan, una collaborazione che manda FIAT su tutte le furie.
Per la prima volta si permette a un produttore straniero di mettere piede in Italia e incrinare il monopolio della FIAT stessa, per di più aggirando un accordo italo-giapponese risalente agli anni Sessanta sulla base del quale l'azienda di Torino si impegnava a non esportare più di qualche migliaio di automobili in Giappone e l'industria nipponica a fare lo stesso a parti invertite. La collaborazione alla fine si farà e produrrà l'Arna, una joint car tutt'altro che indimenticabile. Un'auto dotata di una scocca Made in Japan di grande qualità ma oggettivamente bruttina, soprattutto per gli standard di una casa che aveva visto i propri telai essere firmati da artisti della carrozzeria quali Pininfarina e Bertone. L'insuccesso anche della soluzione "Arna" finisce per aggravare la crisi dell'Alfa. Sono ormai a livello internazionale gli anni delle privatizzazioni su larga scala e lo stato non è più disposto a coprire i buchi di bilancio dell'Anonima Lombarda Fabbrica Automobili (azienda sotto il controllo dello stato dal lontano 1933).
Lo scontro per rilevarla è tra Ford e Fiat (e ricordiamo che Ford voleva acquistare anche Ferrari) ma quando l'opzione americana (maggiormente apprezzata dagli stessi lavoratori di Pomigliano) sembra la soluzione da percorrere ecco che Fiat irrompe, accollandosi tutti i debiti e offrendo sul piatto 1.050 miliardi di lire. Più che l'Alfa Fiat non vuole che quest'ultima finisca nelle mani di un produttore straniero, temuto competitor sul mercato.
Quasi contemporaneamente alla perdita della propria autonomia, inglobata dal gruppo Fiat, cessa anche la produzione di Alfa Romeo nello stabilimento di Pomigliano. L'ultima auto lì costruita sarà, a partire dal 1983, l'Alfa 33. Il nome Sud è però ormai scomparso, come l'idea stessa di un'auto targata "meridione" in tutto e per tutto. Si conclude così la storia di una macchina geniale, penalizzata forse oltremodo dal contesto, un'auto che gli inglesi della prestigiosa rivista "Car Magazine" definirono, rendendole il dovuto omaggio, "auto del decennio" nel 1980.
Cinquant'anni di Alfasud: la grande scommessa industriale italiana
Prodotta tra il 1972 e il 1984, l'Alfasud è diventata in pochissimo tempo un vero e proprio simbolo, orgoglio nazionale e industriale.
La storia del modello popolare dell'orgoglio alfista - prodotto tra il 1972 e il 1984 - si lega a doppio filo alle vicende dello stabilimento di Pomigliano d'Arco, la più grande fabbrica di automobili del Mezzogiorno. L'ambiziosa sfida di portare una prestigiosa fabbrica di automobili del nord al sud e di creare un modello che recasse il nome di questo audace quando complicato progetto si deve a Giuseppe Luraghi, Presidente di Alfa Romeo, il quale - anche a distanza di molti anni dalla sua esperienza con la casa del Biscione - non esita a rispondere "la Giulietta e il progetto Alfasud di Pomigliano d'Arco" a tutti quelli che gli chiedono a quali eventi della sua presidenza fosse più legato.
Dietro alla storia di questa macchina, orgoglio napoletano che ha segnato un'intera generazione di automobilisti, frutto di una delle più grandi scommesse industriali mai azzardate in Italia, si celano le tensioni operaie e le rivendicazioni sindacali degli anni Settanta come anche lo scontro tra l'industria pubblica (Alfa Romeo) e la FIAT: un mix politico-sociale-industriale servito sul palcoscenico del tentativo di industrializzare il Mezzogiorno d'Italia.
Alfa Romeo sbarca al sud
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono l'epoca d'oro dell'automobile, simbolo come mai prima (e nemmeno dopo di allora) di libertà, benessere e progresso. A fare la voce grossa sul mercato nostrano è la FIAT grazie agli iconici modelli 600 e 500 ma l'Alfa non rimane a guardare e risponde ai cugini torinesi iniziando anche lei la produzione di macchine "per il popolo", come le mitiche Giulietta e Giulia.
Già la prima delle "giulie" permette all'azienda milanese di compiere un salto, passando dall'essere un'azienda di grande prestigio ma di piccoli volumi produttivi a una vera industria moderna, abbandonando le grandi cilindrate in favore di equipaggiamenti più compatti.
Sono ormai lontani i tempi delle imprese dei vari Nuvolari, Ferrari e Fangio al volante delle auto del Biscione, un'epoca in cui il leggendario Henry Ford era solito "togliersi il cappello" al transito di un'Alfa. Le sue auto non sono più "sportive inarrivabili" ma, ancora all'inizio degli anni Sessanta, per comprare una Giulia bisognava investire comunque 2 milioni di lire, troppe per un operaio il cui stipendio mensile non arriva a 80.000 lire.
Per intaccare il dominio della FIAT, che pure appare inossidabile, a Luraghi viene l'idea di produrre una vera e propria utilitaria Alfa Romeo. La prima realizzazione, che però rimarrà solo sulla carta, è un prototipo che verrà ribattezzato "pidocchio"; sarà solo l'anteprima del progetto "gamma medio-piccole" di Casa Alfa la cui punta di diamante è l'Alfasud, automobile che verrà prodotta nello stabilimento campano di Pomigliano d'Arco (oggi Pomigliano d'Arco produce la nuova Alfa Romeo Tonale).
Inaugurato dall'imprenditore Nicola Romeo lo stabilimento è rimasto a lungo un'officina che si occupava perlopiù della costruzione di componentistica aeronautica. Rasa al suolo dagli alleati durante la Seconda guerra Mondiale tornò a nuova vita negli anni Cinquanta ma, negli anni Sessanta, sopravvive solo grazie alle commesse pubbliche, producendo motori diesel e autobus a due piani. Rilanciare le vendite di Alfa e contribuire all'industrializzazione del meridione in un colpo solo, questo è l'ambizioso piano di Luraghi, piano che dovrà confrontarsi con la dura realtà.
La fine del boom economico
La fine degli anni Sessanta significa anche la fine del boom economico e in Italia cominciano a fioccare le proteste: aprono le danze gli studenti nel Sessantotto, seguono gli operai metalmeccanici l'anno successivo.
"Ha senso costruire una nuova fabbrica di auto quando il mondo sta smantellando la sua industria?", gridano i più scettici, ma il dado ormai è tratto e il progetto milionario finanziato con i fondi della Cassa per il Mezzogiorno e voluto dallo Stato italiano al fine di favorire l'occupazione nelle regioni del Sud Italia, guidato dall'ingegnere austriaco Rudolph Hruska, vede Aldo Moro posare la prima pietra. Lo stabilimento Alfasud aprirà i battenti ufficialmente il 30 ottobre 1971 con una cerimonia in grande stile.
Nel Mezzogiorno nasce così un'auto diversa da tutte le altre, un veicolo capace di segnare, nel bene e nel male, un'epoca. L'auto presenta una linea moderna firmata da Giorgetto Giugiaro di soli quattro metri, un'ottima tenuta di strada ed è molto veloce per la sua categoria grazie al suo motore boxer da 63 cavalli che le consente di raggiungere una velocità massima di 152 km/h.
L'obiettivo della casa milanese è però non solo quello di creare un'auto economica nella produzione ma che fosse allo stesso modo economica e veloce nella manutenzione, come dimostra l'intelligente e ponderata disposizione di ogni elemento del suo motore a cilindri contrapposti: tutto era letteralmente a portata di mano.
Ma la novità tecnica più dirompente riguarda la trazione, anteriore, uno shock per Alfa Romeo fino a quel momento legata alla trazione posteriore, una soluzione che fece storcere il naso agli alfisti più tradizionalisti. L'auto aveva quindi bisogno - trattandosi di una vettura strutturalmente molto differente dalle precedenti - per assicurare quelle sensazioni alla guida "tipicamente alfa" di un grosso lavoro di messa a punto telaistico delle sospensioni; lavoro che il team dell'ing. Hruscka riuscì a portare a termine con successo.
L'Alfasud si presentava come un'auto dal cuore sportivo ma al contempo familiare, come dimostrano i cinque posti e l'ampio bagagliaio da oltre 400 litri: un veicolo costruito per soddisfare le esigenze dell'italiano medio. L'auto tra i vari test di collaudo ne sopporta anche uno davvero probante, un avventuroso viaggio da Milano a Calcutta, sulle piste del deserto, quasi a voler ulteriormente sottolineare la peculiarità di questo veicolo.
Nuvole all'orizzonte
Le note liete lasciano però progressivamente spazio anche a una serie di problematiche. Uscite dalla fabbrica, sulle auto non tardano infatti a emergere i primi difetti, su tutti quello che più di ogni altro rappresenta il terrore dei costruttori di automobili, la ruggine, un problema reale, anche se in alcuni casi strumentalizzato dall'opinione pubblica e che causerà non pochi problemi d'immagine al marchio anche negli anni a seguire.
Ma quello della ruggine non è il peggiore dei mali perché nel frattempo a Pomigliano la produzione procede a rilento a causa dei continui scioperi che rallentano la catena di montaggio. La fabbrica non raggiungerà mai difatti l'obiettivo di produzione prefissato di mille esemplari al giorno attestandosi, ben lontana da quella cifra, intorno alla metà. Creare un impianto così rigido in un momento storico in cui le agitazioni sociali erano notevoli si dimostrò complicato, ancor di più per un centro come Pomigliano, uno dei pochi poli industriali meridionali e per questo preso d'assalto da chiunque intendesse "far politica", come dimostra la galassia di gruppi neomarxisti appostati fuori dai cancelli, alacremente impegnati a fare opera di propaganda e volantinaggio. "Si faceva una contrattazione su tutto" - ricordano gli operai della fabbrica. A tutto ciò si aggiunse un problema probabilmente inaspettato, legato alla vocazione agricola della zona, quello delle patate.
A Pomigliano si producono le migliori patate del mezzogiorno e quando è tempo di raccolta molti operai scompaiono dalla fabbrica per espletare i lavori agricoli: questo gruppo tutt'altro che sparuto di lavoratori sospeso tra primario e secondario è stato definito dei "metal-mezzadri".
Alle proteste e agli alti tassi d'assenteismo va aggiunta anche l'onda lunga del terrorismo, quando il 27 giugno 1977 il capo del personale dell'Alfa Vittorio Flick viene raggiunto alle gambe da diversi colpi di pistola. Flick si riprenderà e l'episodio, a differenza della scia di sangue che lungamente scorrerà fuori dalle fabbriche del settentrione, rimarrà fortunatamente isolato. C'è poi il contesto internazionale, con gli anni Settanta che si dimostrano uno dei momenti più difficili per il mercato automobilistico, i conflitti in Medioriente hanno infatti contribuito a far schizzare alle stelle i prezzi del petrolio e non solo.
Nonostante il numero di oltre un milione di Alfa vendute, l'Alfasud diventa per molti l'ennesimo simbolo di un sud che non funziona. Lo stesso nome dell'auto si trasforma in un boomerang, da simbolo della rinascita del meridione a un limite per il modello della casa milanese che, quando non va bene è "perché costruito al sud", come recitano i maligni.
Alfa Romeo contesa tra Ford e Fiat
L'Alfa Romeo, per la quasi totalità della propria storia sommersa dai debiti, non riesce a raddrizzare la rotta nemmeno con l'azzardo di Alfasud. La Casa del Biscione cerca allora di salvare lo stabilimento di Pomigliano raggiungendo un'intesa con i giapponesi di Nissan, una collaborazione che manda FIAT su tutte le furie.
Per la prima volta si permette a un produttore straniero di mettere piede in Italia e incrinare il monopolio della FIAT stessa, per di più aggirando un accordo italo-giapponese risalente agli anni Sessanta sulla base del quale l'azienda di Torino si impegnava a non esportare più di qualche migliaio di automobili in Giappone e l'industria nipponica a fare lo stesso a parti invertite. La collaborazione alla fine si farà e produrrà l'Arna, una joint car tutt'altro che indimenticabile. Un'auto dotata di una scocca Made in Japan di grande qualità ma oggettivamente bruttina, soprattutto per gli standard di una casa che aveva visto i propri telai essere firmati da artisti della carrozzeria quali Pininfarina e Bertone. L'insuccesso anche della soluzione "Arna" finisce per aggravare la crisi dell'Alfa. Sono ormai a livello internazionale gli anni delle privatizzazioni su larga scala e lo stato non è più disposto a coprire i buchi di bilancio dell'Anonima Lombarda Fabbrica Automobili (azienda sotto il controllo dello stato dal lontano 1933).
Lo scontro per rilevarla è tra Ford e Fiat (e ricordiamo che Ford voleva acquistare anche Ferrari) ma quando l'opzione americana (maggiormente apprezzata dagli stessi lavoratori di Pomigliano) sembra la soluzione da percorrere ecco che Fiat irrompe, accollandosi tutti i debiti e offrendo sul piatto 1.050 miliardi di lire. Più che l'Alfa Fiat non vuole che quest'ultima finisca nelle mani di un produttore straniero, temuto competitor sul mercato.
Quasi contemporaneamente alla perdita della propria autonomia, inglobata dal gruppo Fiat, cessa anche la produzione di Alfa Romeo nello stabilimento di Pomigliano. L'ultima auto lì costruita sarà, a partire dal 1983, l'Alfa 33. Il nome Sud è però ormai scomparso, come l'idea stessa di un'auto targata "meridione" in tutto e per tutto. Si conclude così la storia di una macchina geniale, penalizzata forse oltremodo dal contesto, un'auto che gli inglesi della prestigiosa rivista "Car Magazine" definirono, rendendole il dovuto omaggio, "auto del decennio" nel 1980.
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